A luglio mi son buttato. Dopo aver sentito parlare il mio amico Sandro per mesi e mesi delle esperienze da lui maturate ai campi gay organizzati al centro ecumenico Agape di Prali, ho deciso di raccogliere il coraggio, mettere da parte altre alternative più consuete per il periodo estivo e prendermi una settimana di ferie per verificare con i miei occhi quale fosse esattamente la realtà rappresentatami con tanto entusiasmo.
Con tutto il necessario scetticismo e con una decisa riduzione di aspettative. In fondo comunque si trattava di un periodo in montagna, almeno avrei respirato aria pura e fresca, vabbé, mi ripetevo.
Essere in una struttura valdese mi dava una rassicurante fiducia epidermica, di quelle emozionali, acquisita per proprietà transitiva. L’anno precedente sul Camino di Santiago avevo conosciuto Anna, di confessione valdese, una persona meravigliosa entrata di diritto nella mia “famiglia”, non quella di nascita, ma quella che ci creiamo naturalmente durante il percorso di vita. E quindi con i valdesi avevo già un piccolo legame emozionalmente confortevole, una sorta di conoscenza indotta.
Arrivato, nonostante i quasi cinquant’anni, ho provato comunque quel classico timore tipico degli adolescenti (che in fondo non ci abbandona per tutta la vita) quando si trovano davanti ad un ambiente non domestico, sconosciuto. Teoricamente confortato dalla presenza di tanti altri “ragazzi” omosessuali di tante età, e quindi con un minimo comun denominatore, ma contemporaneamente disorientato dalla loro specifica identità di persone.
“Poco a poco”, mi son detto, ed è cominciata l’avventura.
Dal titolo e dalla sintesi delle tematiche del campo era evidente che l’avventura non sarebbe stata leggera. “Corpo a corpo. La sessualità”. Da immaginarsi le barriere che immediatamente ho pianificato per non espormi, per proteggermi, per non farmi coinvolgere. Inutili da subito. I primi laboratori e le prime esperienze ci hanno messo immediatamente a contatto con gli altri, essere davanti alle stesse sollecitazioni ci ha fatto pian piano perdere quella diffidenza verso l’altruità e aprirci offrendo all’esterno un po’ delle nostre emozioni, fossero queste diffidenza, paura o entusiasmo.
E’ stato un crescendo, un coinvolgimento sempre maggiore nelle esperienze proposte dalla Staff e vissute sempre più intensamente. E, in maniera sorprendente, nonostante tutte le mie riserve e cautele iniziali, è venuta fuori questa voglia prepotente di mostrarmi agli altri per come sono, nella mia identità, o per meglio dire nel poliedro delle mie identità, di persona, di omosessuale, di soggetto di sesso maschile, di funzionario, di amico e quante altre ancora ce ne stanno, che fanno nel loro complesso “me”.
Una spontaneità difficilmente provata nella sua pienezza durante quella che mi verrebbe da chiamare la “vita normale”, intendendo con questa formula il quotidiano professionale, quello dello studio, o anche dello svago, dove spesso capita la sensazione di parziale accoglienza da parte degli altri, non necessariamente perché nascondiamo alcuni aspetti di noi per non esporci, ma semplicemente perché questi aspetti non vengono ascoltati, visti, e non dico compresi ma almeno rispettati con l’attenzione che meritano, e quindi ci risulta inutile condividerli.
Una spontaneità nella quale ho scoperto, o meglio riscoperto, lati dimenticati, quali la competizione (ma quella sana!) e il senso di appartenenza a una squadra, nei giochi serali, oppure nel bel laboratorio sul rugby. Qui siamo stati messi davanti alla sfida con uno sport per noi nuovo, dove al timore reverenziale di una fisicità spesso mai esplorata, quasi negazione di una maschilità che invece ci appartiene profondamente, si è sostituito un entusiasmo strisciante che a fine giornata ci ha fatto sentire orgogliosi di aver abbattuto una paura, una resistenza, sebbene in un contesto “protetto”. Orgogliosi di aver scoperto delle capacità, entrando pian piano in un ambito considerato erroneamente estraneo, quasi vietato, più da noi stessi che dagli altri. E chi se ne frega dei lividi e di qualche bottarella, quando mai ci saremmo messi “in gioco” così, e soprattutto, quando mai ci saremmo messi davanti a noi stessi senza un autogiudizio immobilizzante?
Con la stessa spontaneità mi sono abbandonato al laboratorio sulla percezione di un noi futuro, di un noi anziano. Costruire un’immagine di me fra trenta o quarant’anni è stato un inventarsi senza modelli, concedendomi, anche se con fatica, la possibilità di anni sereni e consapevoli. Una vera conquista.
Alla fine l”esperienza è stata unica. Ma fortunatamente ripetibile. Già dal prossimo anno.
In cambio del coraggio di affrontarla ne ho avuto un ritorno notevole: la maggiore conoscenza di me, il miglior rapporto con la mia fisicità, e, di sorprendente importanza, una consapevolezza meno grossolana delle identità degli altri, dei loro pensieri, delle loro emozioni, delle loro sofferenze.
Identità uniche e proprie, a volte solo sfiorate per una settimana, a volte da prendere per mano con la voglia di fare un pezzo di strada assieme, ma che comunque rimangono quali elementi di risonanza nel mio vivere, e mi fanno sentire, come poche volte, parte di un’umanità in viaggio.
Francesco Ginestretti